Processo a Google: ”alt all’idea di un mondo virtuale dove tutto è permesso”
Depositate le motivazioni del processo a Google, il primo procedimento penale a livello internazionale che ha visto imputati i responsabili di un motore di ricerca per la pubblicazione di contenuti sul web.
Condannati lo scorso 24 febbraio dal Tribunale di Milano con l'accusa di diffamazione e violazione della privacy, i tre dirigenti di Google rispondevano alle accuse, parlando di "un attacco durissimo ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet".
L'accusa, lo ricordiamo, era di diffamazione per la messa in rete di un filmato che mostrava atti di violenza a danno di un ragazzo con disabilità vessato dai compagni di scuola. Nell'occasione era stato anche proditoriamente coinvolto il nome dell'Associazione Vivi Down, che da parte sua aveva denunciato sia gli autori del video che Google.
Il video venne caricato l'8 settembre 2006 , dove rimase, cliccatissimo nella sezione "video più divertenti", fino al 7 novembre prima di essere rimosso.
Il Giudice Oscar Magi, del Tribunale di Milano aveva condannato gli imputati per violazione della legge sulla Privacy a sei mesi di reclusione (con pena sospesa), assolvendoli invece dal reato di diffamazione.
"Il problema della responsabilità dei contenuti pubblicati sul web - ha commentato Fulvio Santagostini, presidente LEDHA - non è di facile interpretazione perchè si tratta di un equilibrio delicato: fino a dove le definizione delle regole non sconfinano condizionando la libertà di espressione tipica della rete ed in particolare dei social network?
Credo che la sentenza abbia sottolineato un aspetto molto importante: l'interesse economico anche indiretto che sta dietro alla pubblicazione di immagini, filmati, contenuti vari. Sostengo però che questo debba essere un punto di partenza. E' sicuramente necessario individuare alcune linee guida, norme che tengano conto anche della capacità della rete di "autoregolarsi" (vedi reazioni imponenti di fronte a siti di natura razzista o che professano la pedofilia o l'omofobia). Come in tanti altri casi, non credo sia lo strumento a dover essere demonizzato quanto il modo in cui gli utenti decidono di utilizzarlo. Questo rappresenta un altro punto importante: scrivere o pubblicare materiale in rete non significa cancellare la propria responsabilità sui contenuti condivisi."
"Alt" all'idea di un mondo virtuale dove tutto è permesso: le regole di comportamento esistono comunque e c'è una responsabilità penale riconducibile nel "fine di profitto" e "nell'interesse economico" di Google.
E' questo quello che si legge nella motivazione alla sentenza del 24 febbraio scorso, avendo infatti pubblicato il video che ha registrato un impressionante numero di contatti, è apparso evidente il beneficio di natura economica che l'azienda ne avrebbe tratto.
Il fatto che Google si configuri come un contenitore, accessibile a tutti, in cui vengono inseriti e divulgati dati, spesso sensibili, ha costituito per il giudice elemento indispensabile a sottolinearne la responsabilità. "Consapevole del rischio", ma anche carente nella tutela della privacy. L'informativa, si legge tra le motivazioni "è del tutto carente o comunque talmente nascosta nelle condizioni generali del contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge. Per chiarire, infine si legge, "la scritta sul muro non costituisce reato per il proprietario del muro. Ma il suo sfruttamento commerciale può esserlo, in determinati casi e determinate circostanze".
Il Pubblico Ministero di Milano Francesco Caiani ritiene infatti che Google avesse il dovere, non rispettato, di predisporre un'informativa sulla privacy visibile, nel momento in cui l'utente carica il file sul sito. Pertanto, secondo Caiani, Google avrebbe concorso alla diffamazione del ragazzo con disabilità e dell'Associazione, «ledendo i diritti e le libertà fondamentali nonché la dignità degli interessati», per trarne profitto tramite Google Video che si finanzia con la pubblicità.
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