INTERDIZIONE E RAPPORTO DI LAVORO
Mi è stato chiesto di esprimere il mio parere pro-veritate sui seguenti quesiti:
Se sia possibile escludere la liceità del licenziamento intimato all'invalido civile, in conseguenza dell'intervenuta sentenza d'interdizione o d'inabilitazione.
Se sia possibile per i soggetti dichiarati interdetti od inabilitati avvalersi delle norme sull'avviamento obbligatorio al lavoro.
Prima di affrontare le anzidette questioni occorre chiarire un punto preliminare: se ed a quali limiti l'interdetto o l'inabilitato possano essere parti di un rapporto di lavoro.
Non ci sono dubbi sulla possibilità dell'instaurazione o prosecuzione di un rapporto di lavoro da parte di inabilitato giudiziale, giacché a norma dell'art. 415 c.c. egli versa in uno stato di "semi-incapacità" d'agire che gli permette di compiere atti di ordinaria amministrazione, tra i quali sono da sempre classificati i negozi inerenti alla materia del lavoro; e nessun problema sorge, ovviamente, per la prosecuzione da parte sua di una mera attività lavorativa in adempimento del contratto stipulato.
Dubbi potrebbero nascere, invece, circa la posizione dell'interdetto giudiziale, la cui capacità di agire si è soliti dire che sia "sospesa". Questo non significa, però che all'interdetto sia impedito, in linea di principio, l'inserimento nel mondo del lavoro. Se ne trae una conferma inequivocabile dalla disciplina della posizione del minore: a quest'ultimo, incapace di agire per legge (art. 2 c.c.) si riconosce la capacità di prestare il proprio lavoro (c.d. capacità giuridica di lavoro) prima del compimento dei 18 anni. Quanto alla stipulazione di un contratto, il minore, in mancanza della capacità contrattuale, è rappresentato dal genitore o dal tutore, il quale deve valutare se e in quale misura lo svolgimento di un'attività sia compatibile con la salute e la formazione del minore. Anche nel caso in questione l'accertamento deve interessare non tanto la capacità di agire, quanto la capacità del maggiorenne interdetto ad adempiere la prestazione che è oggetto del rapporto di lavoro. E' di volta in volta necessario verificare in concreto se la natura e la gravità dell'infermità possa consentirgli un proficuo impiego in mansioni compatibili.
D'altra parte la ratio dell'istituto dell'interdizione, letto nell'ottica della protezione alla persona e della sua dignità, è quella di tutelare gli interessi (patrimoniale e non) dell'infermo. Impedire all'interdetto di svolgere un'attività lavorativa compatibile con la sua menomazione significherebbe limitarlo ingiustamente nella sua vita di relazione e nella sua capacità di produrre reddito.
Si può affermare con certezza che la sentenza di interdizione/inabilitazione non è di per sé idonea a giustificare il licenziamento del soggetto interdetto o inabilitato: la perdita o riduzione della capacità di agire non implica infatti necessariamente una perdita della capacità naturale di svolgimento dell'attività che costituisce oggetto della prestazione lavorativa in contratto. Se un lavoratore, a causa di una menomazione psichica, viene interdetto od inabilitato, ma può continuare a svolgere correttamente le mansioni contrattuali, non sussiste il giustificato motivo di licenziamento. Egli può essere licenziato soltanto quando le mansioni contrattuali siano compatibili con la menomazione psichica che ha costituito motivo dell'interdizione o dell'inabilitazione: in tal caso il datore di lavoro può giustificatamente licenziare il lavoratore non perché interdetto (o inabilitato) ma per la regola del giustificato motivo oggettivo e in particolare per l'impossibilità di adempimento regolare della prestazione. Il licenziamento deve peraltro in ogni caso,secondo la giurisprudenza prevalente, essere considerato ingiustificato se nell'azienda può essere reperita una mansione compatibile con la menomazione del lavoratore, non potendosi tuttavia obbligare il datore di lavoro a creare un posto di lavoro ad hoc o a licenziare o trasferire un altro lavoratore per far posto al disabile.
L'art.10 della legge n. 68 del 1999, in materia di collocamento obbligatorio dei lavoratori disabili, prevede due motivi che legittimano il licenziamento di un disabile avviato al lavoro in tale regime: aggravamento delle condizioni di salute e significativa variazione dell'organizzazione del lavoro nell'impresa da non permettere l'utile inserimento del soggetto. E' comunque pacifico chi è del tutto privo di capacità lavorativa o pericoloso per i compagni o gli impianti non è inserito utilmente nel lavoro e, quando tale situazione si determini in costanza di rapporto, può essere licenziato.
E'pacifico che non sussistano oggi preclusioni per interdetti/inabilitati ad avvalersi della legge sull'avviamento obbligatorio, iscrivendosi nelle apposite liste.
La Corte Costituzionale nella sentenza n. 50 del 1990 "strigliò" il legislatore per aver discriminato i disabili psichici rispetto agli altri soggetti colpiti da invalidità, non permettendo loro di usufruire delle norme di avviamento obbligatorio. Il legislatore ha provveduto, in un primo tempo con la legge quadro 104 del 1999, poi con la legge n.68/1999, ad estendere l'accesso al collocamento obbligatorio ai soggetti richiamati all'art.1, fra i quali le persone affette da minorazioni fisiche e psichiche che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% (purché, ovviamente, residui una capacità lavorativa). Nel rispetto dei requisiti di legge, dunque, anche interdetti ed inabilitati possono avvalersi dell'avviamento obbligatorio.
La legge 68/1999 sembra essere particolarmente attenta, per un verso, a dare attuazione al dettato costituzionale (artt. 3 e 4, c. 3°), per ciò che riguarda l'educazione e avviamento al lavoro di inabili e minorati e l'uguaglianza tra gli stessi; per altro verso a evitare che sul datore di lavoro venga a gravare un obbligo di natura sostanzialmente assistenziale. E' compito degli accertamenti previsti dalla legge determinare in concreto se il soggetto colpito da menomazioni psichiche possa o no essere proficuamente impiegato. Fra le altre cose, le legge prevede anche delle agevolazioni fiscali importanti per il caso in cui le imprese assumano disabili psichici (art. 9 c. 4). Una volta che questi siano assunti spetta a loro il trattamento previsto dalla legge e dai contratti collettivi e il datore di lavoro è inibito di chiedere al disabile una prestazione incompatibile con le sue minorazioni (art. 10).
In conclusione si può affermare che la sentenza di interdizione o inabilitazione ha la sola finalità di proteggere la persona a cui essa si riferisce, non certo di recarle danno in alcun modo. Non è dunque dalla sentenza, in sé considerata, che può derivare un impedimento alla costituzione o alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
L'impedimento può, in concreto, essere costituito dalla menomazione psichica che costituisce motivo di sentenza, ma soltanto quando tale menomazione sia incompatibile con lo svolgimento delle mansioni contrattuali. E' pertanto sempre necessario verificare in concreto quali siano le capacità che l'interdetto (o inabilitato) possa positivamente esercitare nel lavoro. E deve osservarsi a proposito che le moderne tecniche di assistenza e formazione dei disabili e le nuove tecnologie hanno enormemente allargato le possibilità effettive di utile inserimento dei disabili, anche psichici, nel mondo del lavoro e nella vita di relazione.
Prof. Avv. Pietro Ichino
Dott. Evangelista Basile