Riflessioni sulle RSD
Di seguito il contributo di Angelo Nuzzo al dibattito iniziato con l’articolo su Persone con Disabilità “RSD: un servizio da ripensare?”
Come premessa doverosa alle mie riflessioni all'articolo "RSD : un servizio da ripensare?", devo precisare che in questi anni ho avuto modo di conoscere direttamente solo un paio di RSD: nonostante questo mio limite, ritengo le questioni poste dall'articolo stimolanti per provare ad avviare qualche riflessione che - pur non affrontando puntualmente la questione sollevata sulle RSD - cerchi di approfondire il rapporto che intercorre tra normative standardizzanti, gestione dei servizi, qualità di vita delle persone con disabilità e processi di inclusione sociale.
La standardizzazione dei servizi alla persona, per definizione dovrebbe essere uno strumento a garanzia dei fruitori di questi servizi: la definizione di "regole universali" diventano vincoli per chi eroga i servizi e ad esse devono attenersi in merito alla qualità delle strutture che li ospitano, alla tipologia e quantità di personale, al tipo di prestazioni offerte e ai processi organizzativi.
Sul rispetto di queste regole, i servizi sono sottoposti a controllo costanti attraverso la vigilanza svolta dalle ASL.
Fin qui, si potrebbe dire, nulla da eccepire: la presenza di regole comuni è la base minima su cui costruire le risposte ai bisogni dei cittadini.
L'articolo in oggetto però pone delle domande circa gli effetti della standardizzazione e - nello specifico delle RSD - sulla qualità di vita dei beneficiari, per via delle scelte sulle dimensioni delle strutture o della mancata "standardizzazione" di legami e interazioni tra strutture e territorio.
È indubbio che una struttura di dimensioni contenute può offrire alle persone con disabilità ospitate maggiori chance di interazione e socializzazione col territorio rispetto ad una struttura 2 o 3 volte più grande, ma occorre aggiungere che questo vale solo da un punto di vista ipotetico.
In questi anni - purtroppo - ho potuto vedere più di una Comunità Alloggio di minime dimensioni (5-6 ospiti) che rispondono alle descrizioni di auto-referenzialità e chiusura al "mondo esterno" riferite nell'articolo a proposito delle RSD. Ciò mi porta a dire che per quanto sarebbe sicuramente opportuno prevedere strutture di dimensioni contenute, oggi ciò non costituisce ancora una garanzia rispetto all'obiettivo di avere gestioni inclusive.
Si potrebbe allora praticare la strada di "standardizzare" i processi relazionali tra le strutture residenziali, o meglio tra le persone che le abitano e il tessuto sociale del territorio che le ospita come antidoto all'esclusione sociale?
Ho almeno un dubbio e una preoccupazione che mi portano ad escludere questa opportunità.
Il primo viene dalle riflessioni svolte in questi anni con i colleghi del coordinamento regionale dei gestori a marchio ANFFAS: ragionare e lavorare per l'inclusione sociale significa accettare il certo per l'incerto, il difficile contro il facile, l'ignoto contro il noto, perché l'inclusione è precisa nella sua definizione ma molto meno lo è nella sua realizzazione.
I contenuti, le dinamiche, le variabili e i significati legati alla costruzione e al successivo governo dei processi relazionali sono talmente complessi da sfuggire ad una possibile riduzione in comportamenti/prestazioni standard verificabili.
Il rischio di avere "standard relazionali" per le strutture residenziali - e qui il dubbio si trasforma in preoccupazione - sarebbe quello di assumere come paradigma "il pensiero corretto" (e quindi unico) di chi in quel momento storico e culturale definisce quali sono i bisogni relazionali e come i servizi debbano attivarsi per soddisfarli, precludendo di fatto la libertà e la necessità di muoversi su questo terreno secondo logiche che tengano conto delle differenze presenti: le caratteristiche individuali, i contesti delle comunità territoriali, gli approcci metodologici, valoriali e culturali dei servizi.
Premesso che concordo sull'assoluta necessità che deve essere garantita da parte dei gestori e nella stessa misura sia una buona "cura della persona" che una vita di relazione di tipo inclusivo per le persone con disabilità ospitate nei servizi residenziali, le precedenti riflessioni mi portano a pensare che dal punto di vista degli standard al massimo si potrebbe auspicare che tra le attività da erogate, vi siano anche quelle finalizzate alla socializzazione e inclusione nella comunità territoriale che ospita la struttura.
Resta comunque il fatto che le questioni poste dall'articolo restano sempre presenti sullo sfondo, in particolare se si considera il rischio che le gestioni trasferiscano - in maniera più o meno consapevole - la cultura della standardizzazione dall'organizzazione generale ai contenuti o addirittura alle finalità del servizio.
Forse occorre spostare l'attenzione sulle gestioni per interrogarci su come vengono tradotte, estese o contenute le indicazioni (presenti o assenti) degli standard regionali.
Su quali sono le idee, le culture e le teorie - esplicite o implicite - che presiedono l'organizzazione dei servizi, le scelte progettuali, operative e di contenuto che alla fin fine definiscono sia l'apertura (o la chiusura) ai processi inclusivi e sia la qualità di vita delle persone con disabilità.
Parlare di qualità della vita delle persone di cui ci occupiamo, significa riflettere su quali possono essere le formule organizzative idonee a promuovere inclusione, sulle modalità per valutare il miglioramento/peggioramento della qualità della vita, dei metodi per promuovere e concretamente praticare il coinvolgimento della persona con disabilità nel suo progetto di vita anche se in situazioni complesse.
Per quanto gli standard possano (e in una certa misura debbano) ingabbiare i gestori entro una cornice di riferimento, ritengo che sia poi responsabilità delle gestioni estendere i confini delle prescrizioni anche agli aspetti appena descritti, aspetti che esulano dagli standard strutturali e gestionali previsti dalla Regione.
Queste mi sembrano questioni di fondo primarie, che probabilmente anche la cultura della standardizzazione ha fatto scivolare sempre più in secondo piano e che invece meriterebbero di essere riportate alla luce per alimentare non solo il dibattito ma il senso stesso di quello che viene fatto nei servizi dedicati alle persone con disabilità.
Con il coordinamento regionale dei gestori ANFFAS, quando ci siamo interrogati su come andare - sul versante dell'inclusione - oltre la cornice della standardizzazione, abbiamo intravisto due livelli d'azione, diversi ma complementari, che possono aiutarci nella difficile ricerca di percorsi inclusivi all'interno dei servizi: quello della professionalità e quello dell'azione nel territorio.
Garantire la professionalità all'interno dei servizi, deve risultare il punto di partenza e non di arrivo. È il livello minimo da garantire per andare oltre l'erogazione di servizi e promuovere percorsi che consentano un reale miglioramento nella qualità di vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie. È ciò che permette il passaggio da una visione di risposta parcellizzata o di risposta all'emergenza del problema ad una visione progettuale e di lungo termine: il progetto di vita. Quindi una professionalità che sappia non solo fornire prestazioni ma sia in grado di riconoscere la complessità della presa in carico. Ciò comporta da parte delle gestioni la necessità di investimenti culturali, per consentire agli operatori di acquisire quei valori e conoscenze che travalicano l'aspetto tecnico per assumere quei connotati tipici dell'azione sociale che la standardizzazione rischia di soffocare.
Fare azione nel territorio invece significa essenzialmente voler essere soggetti del cambiamento culturale e sociale laddove si è presenti, acquisendo un ruolo di punto di riferimento non solo per le persone con disabilità di cui ci prendiamo cura e delle loro famiglie, ma anche per altre realtà, servizi, operatori, cittadini, costruendo e mantenendo reti di raccordo e se necessario di coordinamento. Ciò implica la necessità di ampliare l'attenzione dalla dimensione dell'individuo - per intenderci quelli sottesi agli approcci clinici e riabilitativi che caratterizzano la maggior parte dei servizi alle persone con disabilità - a quella dei sistemi relazionali in cui ogni individuo è immerso, assumendo un approccio che consideri il fatto che prendersi cura di qualcuno - nel nostro caso la persona con disabilità - significa comprendere quanto l'ambiente sociale in cui si opera, la qualità dei processi relazionali, le aspettative e le risposte ad esse formulate, le rappresentazioni individuali e sociali, siano tutte determinanti nel costruire esclusione e disagio piuttosto che inclusione e benessere.
Questo potrebbe essere il modo per andare oltre l'erogazione dei servizi alla persona e affrontare la questione della standardizzazione in maniera non limitante, promuovendo accanto "alla cura" occasioni di inclusione sociale o di sensibilizzazione dentro e fuori le strutture. Non c'è nulla da inventare su questo terreno: basta riprendere il filo della lezione che 30 anni fa Basaglia e i suoi collaboratori impartirono a tutto il mondo.
In concreto? Favorire la costruzione di reti informali che coinvolgano in progetti esperienziali e di varia natura semplici cittadini, istituzioni, scuole, oratori, CAG, cooperazione sociale, associazioni, gruppi informali, biblioteche ecc. , dove la realtà della disabilità diventi una delle tante che interagisce con altre realtà e dove l'accento non viene posto necessariamente sulla condizione di disagio ma sulla ricerca di un benessere comune attraverso un'esperienza condivisa e inclusiva.
Angelo Nuzzo - Responsabile servizi socio-educativi Anffas Ticino onlus
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