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Persone con disabilità

A cura di Ledha

Archivio opinioni

8 Aprile 2011

Questione di sguardi…

di Paolo Aliata – Responsabile Organizzativo LEDHA

Uno sguardo sull’autismo. Sulle persone con autismo, sulle loro esperienze i loro vissuti, il loro modo di vedere il mondo

Pensare e parlare di autismo e di persone con autismo è accogliere risonanze, aprire a continuità, lanciare nuovi sguardi, a partire da quello sguardo sfuggente delle persone stesse: breve ed istantaneo, in grado però in un attimo di fotografare il mondo attorno e di coglierlo e riprodurlo in ogni suo piccolo particolare. Starei su e dentro questo gioco di sguardi, provando ad offrire il mio, quello di un operatore sociale che ha lavorato per organizzazioni e servizi per persone con autismo e che ora si occupa di riconoscimento, tutela e promozione dei diritti delle persone con disabilità.

Non mi va - non ne ho le competenze, non ne sento la necessità - di aprire sguardi su dati che dicono quante sono le persone con autismo, non su codici, che provano ad inquadrarle secondo caratteristiche date dei loro comportamenti, non su terapie che dicono come, quando e dove fare.
Vorrei provare a dare uno sguardo che prova ad andare oltre. Riprendo piccoli grandi spunti da esperienze ed incontri vissuti con le persone con autismo. E Marco, non è Giovanni, che non è Davide. Persone diverse, ognuno, come ognuno di noi, con il suo magico prezioso tentativo di vivere la vita. Ed il loro autismo ne rappresenta un modalità, un modo per affrontare il mondo.

"Marco, metti il limone sulla cotoletta!" Marco, con la delicatezza che gli è propria, prende il limone e lo appoggia sulla cotoletta. "Giovanni, dove siamo?" Aspettandoci che Giovanni ci dicesse il nome del paese che stavamo attraversando: "siamo in pulmino", sussurra Giovanni. Tecnicamente questa caratteristica delle persone con autismo si chiama, se non ricordo male, "attenzione iperselettiva", o qualcosa di simile. Umanamente e più banalmente, è forse solo dire le cose come stanno e come avvengono. La loro risposta non corrisponde alle nostre attese, a ciò che siamo abituati ad avere come risposta, ma non per questo è sbagliata. Anzi a ben vedere Marco e Giovanni, con il loro immediato sguardo sfuggente hanno ragione. Hanno ragione quando guardano confusi un orologio che rappresenta in modo circolare e ricorsivo il tempo, funzione per definizione lineare che non torna mai su se stessa. Hanno ragione.

Non dimenticherò mai quella persona con autismo che invitata a parlare ad un convegno ha esordito dicendo " non riuscirò mai a capire perché continuate a fare convegni su noi persone con autismo che siamo così poche e non li fate su voi persone con normalità che siete così tante". Parole che lasciano il segno. Hanno maledettamente e serenamente ragione.

E mille altre parole potrebbero rappresentare questa ragione. Anche le parole non dette. Troppo spesso si pensa che chi non possa parlare non abbia nulla da dire. Troppo spesso si pensa che le cose si possano dire solo parlando. Ci sono gli sguardi, sfuggenti o penetranti che siano. Laddove sono bloccate le parole, si parla con altro: comportamenti, emozioni, sguardi, appunto. Una reazione aggressiva, un pugno od una sberla a se stesso o agli altri o contro l'armadio o la parete, ed altri atteggiamenti che troppo spesso liquidiamo come impropri o bizzarri o pericolosi non sono solo un "comportamento problema", ma sono innanzitutto un modo per dire qualcosa laddove non si possono dire parole. Un modo per comunicare. Per (s)guardare. E il nostro modo di liquidarli corrisponde alla paura che abbiamo nel doverli e poter capire ed una volta capiti, nel dare risposte o per lo meno stare con i problemi che da questi vengono aperti. Se non capiamo, molto spesso il problema è nostro e non della persona a cui lo attribuiamo. Hanno ragione.
Un invito, o forse più, ad entrare nelle persone e a (s)guardare, dal loro dentro, il fuori che siamo noi con le nostre cose. E a metterci mano, non solo occhi. Un desiderio, o forse più, a rappresentare, come tutti, i propri sogni, le proprie emozioni. A raccontare e dire il proprio io. Come tutti. Perché, come tutti, le persone con autismo si emozionano, sentono, conoscono e comunicano. Ed hanno il pieno diritto di farlo. In quanto persone, a prescindere dalla condizioni di disabilità in cui sono.

A memoria ricordo le parole scritte da una persona con autismo riportate in un testo "La realtà per una persona autistica è una massa interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi, rumori e segnali. Niente sembra avere limiti netti, ordine o significato. Gran parte della mia vita è stata dedicata al tentativo di scoprire il disegno nascosto in ogni cosa. La routine, scadenze predeterminate, percorsi e rituali specifici aiutano ad introdurre un ordine in una vita inesorabilmente caotica." È come se, dentro una persona con autismo, vi fosse una costante richiesta di chiarezza, di univocità, di senso. Una domanda dentro, senza una risposta dentro. Le persone con autismo soffrono e stanno male nelle "zone grigie", nelle sfumature, nelle connessioni, nei passaggi da un luogo all'altro, da un tempo all'altro, da una condizione all'altra, nelle ambivalenze e nelle vie di mezzo. Fanno una innata fatica ad integrare le emozioni, a tenere e tenersi insieme, a percepirsi un tutt'uno ed non un insieme insensato di frammenti. "Sono rotto", mi ripeteva Tiziano. Ed è come se chiedessero ed affidassero agli altri ed al contesto di esercitare quei gesti, soprattutto emotivi, che non sono in grado di attivare su se stessi. Chiedono di essere pensati, di essere con-tenuti, di essere sostenuti e guidati nella ricerca di senso. Di essere in-clusi.

Le persone con autismo, oltre e con le emozioni, i sentimenti, le percezioni, le parole dette e non dette, ci portano una grande sfida. E come le persone con autismo, tutte le persone con disabilità. Quella di ri-vedere, di ri-(s)guardare non solo il nostro modo di guardare, ma il nostro modo di essere innanzitutto cittadini.

L'essere com-presi, il dire i propri gusti ed aspirazioni per le persone con autismo è un desiderio, è un bisogno o è un diritto? I desideri, sappiamo bene, si possono non realizzare; i bisogni si misurano, si valutano, ma se non ci sono le risorse - ci spiace - non si possono soddisfare. Con i diritti, non si scherza. Esistono anche se uno non ne è consapevole, in quanto uomo, in quanto propri ed esiti della sua innata dignità. I diritti sono esigibili, quindi da riconoscere e rendere reali. Nel momento in cui riconosciamo in ogni persona il valore di essere uomo, le sue domande faticosamente poste devono essere necessariamente colte, riconosciute e realizzate. "Dire io" è un diritto, anche se non si ha voce e tanto meno parola. "dire io" sulle cose che riguardano quell'io è un diritto ancora più forte.
Come realizzare questa inclusione, questa partecipazione? Si include, per definizione, a e in tutto, come per ogni persona. Il problema è come farlo in modo sostenibile e percorribile per la persona che lo vive. Ho detto della difficoltà che le persone con autismo hanno nell'integrare le emozioni, nel dare e ricercare significato alle cose.È un problema di misurare le cose secondo il loro metro, dove 2 ore di lavoro equivalgono a 14 nostre, dove l'incontro con una persona nuova equivale per noi ad una dichiarazione di amore. Stessa densità, stesso esito emotivo dall'esperienza, a fronte di "quantità" di esperienza diversa. L'obiettivo è trovare l'adeguato fattore di trasformazione che non butti dentro, ma che non allontani.
Chi deve attivare l'inclusione? È il nostro compito, di cittadini. La Convenzione Onu dei diritti delle persone con disabilità ratificata dal parlamento italiana e diventata legge nel marzo 2009 dice che "la disabilità è un concetto in evoluzione ed è il risultato dell'interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri." In questo senso la disabilità è il risultato di una relazione tra l'individuo e una società che non lo include. Se la disabilità nasce da una relazione con il contesto vuol dire che può essere ridotta agendo sul contesto. Dato che il contesto siamo anche noi e noi lo creiamo, come cittadini, come persone con disabilità, come familiari, come operatori, come organizzazioni, come associazioni, servizi, volontari, noi possiamo/dobbiamo essere riduttori di disabilità. Così per l'autismo. In un certo senso, l'autismo dipende da noi. Sta a noi decidere se vogliamo che l'autismo sia l'altra parte del mondo o il mondo delle altre menti: isolato e distante, al confine tra il nostro sordo egoismo e la loro muta sofferenza, una serie di comportamenti bizzarri che cervelli rotti secernono oppure un modo di affrontare la vita messo in atto da persone e in quanto tale ed in quanto tali degno di essere riconosciuto, promosso e tutelato.


L'inclusione diventa così un delicato e "artigianale" atto, gesto e pensiero che distilla dalla vita la possibilità di essere vissuta, abitata, inclusa che prende, ricerca e cattura possibilità di "inclusione" e le offre a vita alla persona. Un gesto che alza lo sguardo e si aprire al contesto, al territorio, alla città e non solo. Non grandi cose. Il sentirsi parte di uno spazio e di un tempo, "appartenenti", "cittadini". Passa prima di tutto dalla costruzione di un contesto che trasmetta vita, autenticità. Vi potrebbe essere spazio e tempo di azione e di pensiero anche in una parrocchia e in un oratorio. Inclusione secondo me richiede l'assunzione di un approccio mentale: in-cludere come pensiero attivo, la persona con disabilità. La persone con autismo, come ho provato a dire, è come se fossero costantemente animate da una richiesta (desiderio, bisogno o diritto?): "Pensami, con-siderami (da con-siderare=stare con le stelle) quindi sono". Assumere questo punto di vista non significa negare la presenza di menomazioni, danni, forme di sofferenza che hanno bisogno di essere individuate e trattate adeguatamente. Piuttosto significa chiedersi cosa sia possibile fare per promuovere la piena realizzazione di persone.
Lo so. Grandi sguardi, diritti, principi, parole che contrastano con la realtà sempre più caratterizzata da scelte di politica sociale che non stanno certo sostenendo le persone con disabilità. Sento questo strabismo nel mio lavoro: un costante richiamo ai diritti che per definizione sono da riconoscere ed un realtà che non offre grandi strumenti per realizzare nella quotidianità quei diritti, rendendoli "negati". Sento forte la necessità di tenere uno sguardo unico, perché diritti e realtà siano sullo stesso asse e nella stessa prospettiva di osservazione. La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che ho citato prima, mi aiuta, quando mi invita a fare oggi un poco più di ieri e domani un poco più di oggi. Mi obbliga al miglioramento. Mi vieta la regressione. Piccole cose in più ogni giorno.

Paolo Aliata - Responsabile organizzativo LEDHA

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