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Persone con disabilità

A cura di Ledha

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20 Dicembre 2011

“Chiedo aiuto a vivere a modo mio”

di Edo Facchinetti, membro del Consiglio direttivo UILDM di Bergamo

Intervento al seminario "Persone con disabilità e vita indipendente: un progetto possibile?" realizzato all'interno del progetto Diritti: dalle idee alle proposte, promosso da UILDM e LEDHA e cofinanziato dalla Regione Lombardia.

"Sono un uomo con disabilità di 52 anni, bisessuale e con tetraparesi spastica, con buona capacità di intendere e di volere, ma con pochissima autosufficienza fisica, con buona cultura, ma bisognoso di assistenza 24 ore su 24.
Ho bisogno del sostegno di mani generose per essere aiutato nei bisogni primari, ho bisogno di amiche e amici generosi per soddisfare il bisogno di tenerezza.

Può sembrare uno strano modo di presentarmi, però questo sono io.
In questi 52 anni ho imparato a fidarmi di molte persone.
E questa è una grossa fortuna, perché da esse non ho ricevuto illusioni e delusioni, anzi, a volte mi chiedo quanto sconforto posso aver dato a loro io.

Se vado indietro con la memoria e penso alle cadute fatte con la carrozzina, in giro per strade che in passato erano un po' più sconnesse di quelle di adesso, dovrei avere solo paura.
Invece, nonostante ferite e cicatrici, non soltanto fisiche, sono contento. Perché educato all'autoironia e all'autostima da mia madre, da mio padre e da mio fratello Giacomo, che non mi hanno fatto crescere sotto una campana di vetro.
Ringrazio anche le donne della rete di parenti e amici per avermi fatto scoprire, apprezzare e voler bene alla mia parte femminile.

Una ventina di anni fa ho iniziato un percorso di Fede che mi ha dato un grosso aiuto sia nell'accettare la mia situazione che nell'avere fiducia nell'altro, nell'altra.
Non ho mai voluto fare mio il concetto di rassegnazione. L'ho sempre abbinato ad un senso passivo di accettazione dell'esistente. Invece, secondo me, il percorso di accettazione dei propri limiti e delle proprie disabilità può e deve essere un percorso attivo.

Non mi fanno paura le persone disabili, con qualunque forma di disabilità, ma ho letteralmente il terrore di qualunque forma di relazione mortificata, handicappata.
Per questo sento il dovere e il piacere di rimuovere e di fare opera di prevenzione contro ciò che ostacola relazioni dignitose. Non disdegnando la prassi gandhiana e gli insegnamenti dell'educazione nonviolenta al conflitto.

Quotidianamente entriamo in contatto volontariamente o involontariamente con storie di uomini e donne con diversi gradi di fragilità, di cronicità, di disabilità mentale e ritardo emotivo che ci pongono quesiti e tematiche estremamente delicati e complessi.
Ad esempio: come affrontare il loro desiderio di maternità o paternità o le tematiche legate alla contraccezione? E, per noi, hanno diritto ad avere un'educazione all'Eros, alla tenerezza, alle effusioni e all'intimità come qualsiasi altra persona?

Ho avuto a che fare, sia come operatore-supervisore sia come semplice utente, con l'aspetto della cronicità che in tali patologie e diagnosi è presente.

Abbiamo talvolta evitato di affrontare questo argomento perché, di impatto duro, avrebbe potuto approfondire ancora di più il sentimento d'impotenza.

Secondo me, invece, anche se a noi operatori, come alle famiglie, l'aspetto della cronicità fa paura, sarebbe interessante affrontarla in rapporto al principio di cittadinanza attiva. Coinvolgendo i contesti sociali ed affettivi dei soggetti cronicizzati che faticano a intervenire su aspetti che vanno oltre il mero assistenzialismo.

Difficile infatti per il nucleo familiare dover ammettere che per il bene del soggetto con cronicità, uno, se non l'unico, strumento possibile per dare un minimo di sollievo, è il distacco dalla famiglia stessa.

È comprensibilissimo che si possa vivere un senso di fallimento anche da parte degli operatori dei servizi.
Ma se vogliamo combattere il nostro senso di onnipotenza dobbiamo fare uno sforzo di comprensione dei nostri limiti ed elaborare un concetto di cittadinanza flessibile in grado di accogliere anche fenomeni plurimi di cronicità.

Ritengo che solo così si possa superare il rischio di recinzione e isolamento che può instaurarsi dentro all'ipotesi di alleanza tra comune, scuola e famiglia.
Inizierei a far capire alle persone disabili che non possono e non devono usare la propria disabilità, soprattutto se fisica, come paravento. Dietro il quale nascondere in modo ipocrita discriminazioni, volgarità e banalizzazione di tutto ciò che riguarda il corpo, i sentimenti e le sensazioni che con il corpo si esprimono.
Al contrario, nell'educare all'autocoscienza vedrei bene tutto ciò che riguarda il concetto di autodeterminazione e di libertà.

Arrivo ora alla mia esperienza, che credo, si possa dividere in due parti.
La prima, la fase famigliare, nella quale tutto quanto riguardava la sessualità veniva vissuto sottotraccia.
È solo grazie agli esempi di vita delle donne della mia famiglia e della rete amicale, che ho potuto apprendere lezioni di sensibilità alla tenerezza e al piacere che il corpo può dare.

La seconda, la fase istituzionale, mi ricorda lunghi periodi passati in vari istituti nei quali, oltre a non poter parlare di sessualità, ho dovuto fare i conti con la paura per la mia omosessualità e bisessualità.
In quei luoghi dominava l'ignoranza, (non nel senso offensivo del termine, ma nel senso che il personale ignorava determinati meccanismi e messaggi verbali e non verbali).
In quegli istituti il linguaggio dei corpi e i desideri di tenerezza venivano mutilati.

Da lì son nate alcune mie domande: se a noi oggi venissero poste alcune richieste da parte di persone disabili, richieste legate all'esercizio della piena vita sessuale, ce la sentiremmo di dar loro complicità e aiuto?

Io sì, mi batterei affinché sul mio territorio si potesse creare un gruppo di persone, uomini e donne, che per sensibilità, disponibilità e apertura mentale accettassero di entrare in relazione con persone disabili.
Farei di tutto affinchè questo "gruppo speciale" venisse riconosciuto dal servizio pubblico e venisse legittimato dai privati cittadini.

Non so quello che a voi, istintivamente, fa venire in mente la parola corpo, ma a me, istintivamente, viene di allacciarla ad una bella persona di sesso femminile.
Ma riflettendoci, mi accorgo che anch'io sono condizionato da questa civiltà dell'immagine e da una educazione basata sul mio essere maschio.

Scrivo questo non perché mi senta in colpa, ma per prendere coscienza di questo limite e usarlo come trampolino di lancio. Verso una ricerca-formazione educativa ed auto educativa basata su un modo, anche istintivo, di vedere-pensare il nostro corpo con meno rigidità, meno costretto in certi schemi che non permettono di accettare i propri e gli altrui limiti, le proprie e altrui differenze.

Voi mi chiederete, ma allora cos'è sto corpo?
lo lo sento come un grosso e bel libro di storia, anzi uno dei migliori libri di storia.
Avete presente un diario (non so se avete mai tenuto un diario) sul quale registrate sensazioni, azioni, episodi quotidiani.
Solo che, piccolo particolare non trascurabile, registra 24 ore su 24, per tutta la durata della nostra vita, anche le cose che non vorresti scrivere, le più piccole e le più "insignificanti".
Non lo so voi, ma io fino a 20 anni fa il corpo l'ho diviso in due parti: da una parte la testa e dall'altra il resto. Inutile dirvi che la parte alla quale tenevo di più era la testa perché la ritenevo la parte più presentabile della mia persona.
Poi determinate esperienze e incontri mi hanno aiutato a capire che il corpo, anche se non "perfetto" (anzi!), può diventare un magnifico strumento di comunicazione e di dialogo-rapporto con le altre persone.
E per fare questo non occorre un corpo perfetto, atletico, bellissimo, senza la minima disabilità, ma "semplicemente" non volerlo trasformare da soggettività in dialogo, di dialogo con l'altro, in un'arma di aggressione e sopraffazione nei confronti del prossimo, chiunque esso sia, soprattutto se più debole.
Spesso mi chiedo perché la nostra educazione-cultura dia tanta importanza ad un solo tipo di linguaggio, quello verbale e dell'immagine, quando invece è dal corpo che escono le parole e i suoni. Quando è con tutto il corpo che percepiamo le altre persone e l'ambiente che ci circonda.
Non so se voi avete mai avuto l'occasione di osservare due o più persone che per comunicare usano la faccia o le mani perché impossibilitati a "parlare normalmente".
Ve lo garantisco sono uno "spettacolo" di comunicazione sensoriale di una tenerezza travolgente!

La sessualità resta tuttora un aspetto tabù nel nostro sentire, nelle nostre vite. Trattare questo argomento senza urtare sensibilità, relazioni e fraintendimenti, non è cosa facile.
I sedimenti culturali si depositano su fondali della mente e a volte sono inaccessibili ad ognuno di noi.

Questo non cancella la mia convinzione che la sessualità la si possa esprimere con tutto il corpo senza limiti di età, di genere, sociali e psichici, se non la riduciamo a cosa oscena, (etimologicamente, fuori dalla scena) o a pura genitalità.
So che l'idea possessiva del corpo dell'altro, dell'altra, ha come conseguenza fenomeni pesanti, soprattutto nei confronti delle donne e delle persone fragili (io sono favorevole alla legge contro la violenza sessuale approvata dalle Camere nel 2009, anche se - secondo il mio modesto parere - il carcere non è nè deterrenza nè soluzione, ma questo è altro argomento).
Anche l'atto sessuale, inteso solo come atto procreativo, se assunto in modo ideologico, può diventare ostacolo al piacere, alla tenerezza, all'incontro. Non riesco a ridurre la sessualità in luoghi senza luce, in buie caverne dove il fremere dei corpi e del piacere fanno paura.
Personalmente la desidero e la immagino come uno strumento per conoscere e farsi conoscere dall'altra persona, uno strumento d'amicizia, uno sfinimento, un esaurirsi nel dare e ricevere tenerezza.

In altri termini percepisco la sessualità come atto infinito di pace e di amore.

Utopista, sognatore "inesperto"?

Forse, ma non riesco a considerarla diversamente."

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