“Un handicappato è un handicappato”. Alcune riflessioni su una tautologia sociale
Un estratto del volume "L'attrazione speciale. Minori con disabilità:integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale".
Questo testo nasce da un disagio comunicatomi dall’autore di questo libro e condiviso anche dal sottoscritto. Perché, tutte le volte che ci si trova a parlare di disabilità bisogna sempre ripartire da zero? È cioè necessario chiarire costantemente all’interlocutore di turno cosa si intenda per disabilità, chi siano le persone con disabilità, quali siano le parole appropriate e quelle scorrette per definire la questione, cosa significhi inclusione e perché ci si spinga ad esprimersi in termini di diritti umani facendo riferimento alla Convenzione ONU che, essendo una legge dello stato italiano, non può essere ignorata, né dovrebbe essere elusa nelle sue concrete applicazioni. Per quanto tale disagio continui a produrre, quotidianamente, fatiche, frustrazioni e una lunga serie di strategie (e finzioni) che adottiamo per non esserne schiacciati, a me pare si debba constatare che le cause di questo disagio costituiscano una dimensione intrinseca della disabilità, sia del viverla sulla propria persona, sia dell’essere coinvolti a vario titolo dalla questione (dal familiare all’operatore, dal membro di un’associazione al formatore, dal politi-co al docente universitario).
La disabilità ha sempre bisogno di giustificare e legittimare se stessa e ciò è dovuto ad un pregiudizio profondamente radicato e sedimentato. Non a caso il titolo di questo testo: “Un handicappato è un handicappato” è un’espressione scorretta nell’uso terminologico, neanche tanto velatamente razzista, ed è stata realmente pronunciata da un ristoratore che, impegnato nel fare impresa sociale, impiegava personale con disabilità. È un’espressione che mette in luce, chiaramente, una tautologia non di tipo linguistico, ma che si realizza nelle dinamiche sociali (dallo sguardo del passante per strada al provvedimento sulla spesa pubblica) che esprime una precisa visione, inferiorizzante e razzista, delle persone con disabilità. È una tautologia per cui, in sostanza, sembra impossibile concepire e pensare la persona con disabilità se non come un soggetto inferiore.
Come singoli individui e come attori (famiglie, associazioni, pubblici servizi, privato sociale, ricercatori, operatori, comunicatori, giornalisti, ecc.) variamente coinvolti dal tema, in ogni caso, non dobbiamo solo comprendere le ragioni di queste dinamiche, ma dobbiamo assumerle come parte del fatto di aver a che fare con la disabilità. L’obiettivo non è certo un’armoniosa e consapevole acquiescenza: è così, mi metto l’animo in pace. Il processo che dobbiamo mettere in atto (individualmente e, soprattutto, collettivamente) è quello di una più profonda comprensione di simili dinamiche per assumerle fino in fondo. Non con lo sguardo sconsolato dello sconfitto, ma con l’intenzione di volerci interrogare seriamente: è così, come posso allora pensare, ancor prima di agire, per tentare, per quanto mi compete, di evitare che continuino a riprodursi e che non sia io stesso a riprodurre, magari inconsapevolmente e in perfetta buona fede, tali meccanismi sociali? A me pare che attorno a questi temi sia necessario avviare, specialmente negli ambienti degli “addetti ai lavori”, dibattiti e conoscenze.
Una violenza silenziosa, impercettibile, di grande effetto
Alla base dei meccanismi sociali che spiegano la frase del citato ristoratore e la pregnanza del pregiudizio che circonda le persone con disabilità c’è il noto concetto di stigmatizzazione. Lo stigma non è una caratteristica propria dell’individuo, cioè non è il sinonimo di menomazione, ma è una relazione sociale, è la risultante di un insieme di dinamiche culturali, sociali, collettive e individuali at-traverso cui, a partire da alcune differenze (biologiche, comportamentali, sociali), si costruiscono categorie di persone a cui sono attribuiti stereotipi negativi che le distinguono dagli altri, dai normali, producendo l’effettiva perdita di statuto, il declassamento. La forza di queste dinamiche è legata al loro sembrare rientrare nell’ordine delle cose. Questo declassamento avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, non attraverso deliberati atti che, magari violentemente, intendo-no produrre scredito sociale, ma si realizzano nella sfera dell’inconsapevole, di automatismi sociali, di schemi di pensiero che anticipano la concretezza di azioni attraverso cui, quotidianamente, si accumulano dinamiche che producono singole forme di discriminazione e più generali percorsi di esclusione.
La tautologia espressa del ristoratore ha una sua logica che sta, non nel suo pensiero, ma nelle dinamiche sociali entro cui consideriamo la disabilità. Molti anche dei discorsi più avanzati sulla disabilità, per non dire dei servizi e delle politiche destinati a questo mondo, non rispondono, forse, in fondo, alla stessa logica? Siamo continuamente assediati (da qui il citato disagio, ma anche la necessità che queste dinamiche vengano studiate, socializzate, discusse) da quella che è stata definita violenza simbolica: una forma di violenza che passa per intangibile e impercettibile. L’inferiorità di un individuo diverso nel suo schema corporeo, nei movimenti, nel modo di comunicare, ragionare, pensare, comprendere, sembra andare da sé, sembra rientrare nell’ordine delle cose, appare come inevitabile necessità che solo un malcelato razzismo riesce a giustificare (purtroppo è così).
Questa violenza “è presente, allo stato oggettivato, nelle cose, in tutto il mondo sociale e, allo stato incorporato, nei corpi (…), dove funziona come sistema di schemi, di percezione, di pensiero e d’azione”. Si configura come un modo di vedere le cose talmente naturale, inevitabile e logico al punto da esse-re confortato dall’inconsapevole complicità degli stessi soggetti stigmatizzati che adottano su di sé quella percezione. La pregnanza sociale di tali meccanismi è tale che ne siamo tutti coinvolti.
È questa è la ragione per cui è necessario interrogarsi. Anche chi conosce la disabilità da vicino fatica, spesso, a riconoscere le variegate forme di esclusione e discriminazione su altre popolazioni con o senza disabilità. Non c’è peggior sconfitta del razzismo della persona con disabilità (e di altre categorie di esclusi) che, in fondo, condanna se stesso e l’altro. Cerca di emergere, di tirarsi fuori dalla sua difficile situazione facendo il forte sulle spalle degli altri: tira fuori se stesso (o il proprio familiare, o le persone con cui si lavora), ma lo fa continuando ad applicare schemi di pensiero e d’azione escludenti, discriminanti e razzisti sugli altri, contribuendo, così, a riprodurli nuovamente (mors tua vita mea). Per questo è così pervicace la violenza simbolica. Naturalmente, non basta dire “sono discriminato, mi discriminate in quanto disabile” per essere al riparo da questa complicità, né ciò è sufficiente, per quanto necessario, a cambiare il senso comune.
È tuttavia urgente cominciare a lavorare per produrre informazione, conoscenza, pratiche che abbiano all’orizzonte l’intento di una “sovversione radicale delle strutture sociali e delle strutture cognitive” entro le quali si produce, continuamente, l’inferiorizzazione e l’esclusione sociale delle persone con disabilità. La questione non è dunque attribuirsi lo statuto di immune o di agente riproduttore di tali dinamiche, ma di sapere che ci sono e che ci riguardano profondamente, come soggetti discriminati e come soggetti discriminatori. L’obiettivo è certo ambizioso, e non ne vedremo a breve i frutti, ma se non si comincia mai questo percorso, se non ne si sente seriamente l’esigenza, se non ci si dota degli strumenti, delle analisi, delle discussioni per intraprenderlo, si sarà continuamente condannati a subire questo radicato e sedimentato senso comune che si esprime a tutti i livelli sociali. Il dibattito che auspico riguarda proprio la possibilità di cogliere queste dinamiche per tentare di arginarle, ostacolarle, di riconoscere i nostri limiti (cioè quando continuiamo ad agire quella violenza senza poterne fare a meno, ma quanto meno consapevoli di farlo) nel quotidiano, nei servizi, nel nostro occuparci, a vario titolo, di disabilità.
Quali diritti con la crisi dello stato sociale?
Il tema della definizione sociale della persona con disabilità come soggetto inferiore riguarda anche il tema dei diritti che, spesso, appunto, usiamo e invochiamo per scardinare questa inferiorizzazione che si traduce non solo in forme di esclusione sociale, ma anche di discriminazione all’interno degli stessi servizi destinati alle persone con disabilità. Non intendo naturalmente ritornare sulla novità sancita dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (2006) per cui “la discriminazione contro qualsiasi persona sulla base della disabilità costituisce una violazione della dignità e del valore connaturati alla persona umana” e costituisce dunque una violazione dei diritti umani già connaturati nella persona con disabilità e indipendentemente dalle diversità di funzionamento (corporeo, intellettivo, linguistico, sensoriale, psichico).
Intendo, invece, fornire alcuni spunti di riflessione soffermandomi sulle ragioni per cui, nella pratica dell’esplicitazione dei diritti, la persona con disabilità è considerata un individuo inferiore. In questo senso, la straordinaria novità della Convenzione ONU, e i discorsi su di essa, si confrontano con alcuni grandi temi. Anche qui, mi scuso se mi ripeto, la questione torna ad essere la costruzione di un dibattito profondo, articolato, fuori dagli slogan e dalle frasi di facile effetto, per fare della Convenzione non una “bella utopia irrealizzabile” (che l’accanito, e magari inconsapevole, discriminatore chiamerà “teoria” per non dire “aria fritta”), ma un obiettivo a cui tendere, con tutte le difficoltà del caso, nei servizi di prossimità fino alle politiche più generali. Nel promuoverla, dobbiamo farci interrogare dalla Convenzione.
Dobbiamo essere consapevoli che fino ad oggi, per lo più, abbiamo usato, concretamente, la Convenzione come strumento giuridico di opposizione a provvedimenti (come il taglio dei servizi scolastici che lede il diritto inviolabile all’istruzione) per non far schiacciare ulteriormente la disabilità, non per costruire un “mondo nuovo” fatto di diritti umani e non discriminazione. Il tema è naturalmente ampio ed articolato e coinvolge, strutturalmente, la crisi del modello che rende concreti i diritti, cioè quello dello stato sociale.
Qui, oggi (e sembriamo non vederne via d’uscita) sono in pericolo i diritti e le “garanzie sociali” che credevamo acquisite, per molte fasce della popolazione, con o senza disabilità. La condizione di “welfare caritatevole”, secondo la definizione di un ministro, non solo mette ampiamente tra parentesi la novità della Convenzione ONU e il suo essere legge dello stato italiano, ma fa diventare le politiche “assistenziali” un baluardo da difendere, per quanto non rispondano affatto ad una logica dei diritti umani e producano ben poca inclusione. Quello stato sociale, che rappresenta una “felice” novità per le persone con disabilità di oggi rispetto ai decenni scorsi per non dire ai secoli passati, rischia, se non di scomparire, di perdere senso e impatto nel suo stesso fondamento, che è quello di ridurre le distanze sociali e consentire l’accesso a diritti e servizi non solo a chi può comprarseli. Sul fronte della disabilità, quello stato sociale era già piuttosto lontano dal configurarsi, concretamente, co-me orizzonte di inclusione, di piena partecipazione, di “pari dignità sociale”, secondo le parole della nostra Costituzione.
Ma quale orizzonte ci attende dunque per un prossimo futuro? Non c’è abbastanza “carne da macello” sul fuoco per avviare un dibattito su come costruire uno stato sociale più inclusivo e più rispettoso dei diritti umani? Dobbiamo accontentarci di contemplare il ritorno ad una situazione ottocentesca? La restrizione dei fondi, in realtà, produce, concretamente, alcuni effetti nettamente orientati, nuovamente, verso una concezione di disabilità lontanissima dall’inclusione e dalla partecipazione. Si torna bellamente al passato (lo si è visto in questo libro anche in tema di “scuole speciali”) perché non si è riusciti a “fare inclusione”, perché i dispositivi pensati e deputati per farlo hanno perso senso e mancano i fondi per continuare a farli esistere e rinnovarli facendo fare loro un passo in avanti.
Con l’idea che non ci siano alternative (non riusciamo nemmeno a pensarle!) vincolati da ragioni di bilancio (nulla di più oggettivo per giustificare qualsiasi cosa), con la miope arroganza secondo cui siamo sempre “in evoluzione verso il meglio” stiamo, in realtà, facendo giganteschi passi a ritroso, probabilmente convinti (participio che vale nella sua forma attiva e passiva) del contrario.Torna a farsi largo un’idea di disabilità (espressa concretamente nelle scelte di non finanziare alcuni dispositivi e di farlo su altri) di tipo sanitario e assistenziale. Continuamente attestato, cioè, sull’idea che la persona con disabilità, incapace di fare normalmente, sia un individuo semplicemente bisognoso di cure mediche.
Si gioca sulla sopravvivenza, con buona pace dei diritti, della partecipazione, dell’inclusione: sempre meglio di niente, si dirà con pietosa rassegnazione che diventa facilmente cinismo. Accade, inoltre, che le attuali restrizioni di budget e di servizi colpiscano soprattutto una certa categorie di individui: perso-ne con disabilità non abbastanza “gravi” sotto il profilo sanitario e non abbastanza povere in termini di reddito. Naturalmente (e ci mancherebbe!) chi ha bisogno di servizi sanitari di grande impatto deve vederseli riconosciuti, ne va della loro stessa sopravvivenza. Da qui la corsa a sostanziare la “condizione di gravità” come baluardo per vedersi riconoscere servizi e diritti: cioè l’ultima spiaggia non solo di concrete esistenze, ma anche dell’idea che la persona con disabilità non debba solo sopravvivere, ma vivere.
La bilancia dei capitoli di spesa per la disabilità pende nettamente sul piatto del sanitario, della cura assistenziale e decisamente poco nella sfera sociale. Per chi invece non rientra nella sfera sanitaria che governa gli interventi pubblici sulla disabilità si chiudono e si sviliscono tutti quei dispositivi delle stato sociale che avevano nelle loro intenzioni, già lontane dal concetto di diritti umani, di costruire maggiore inclusione.
Si prenda, per esempio, la questione professionale. Cosa, più del lavoro, dovrebbe essere utile per costruire partecipazione sociale e lo statuto di cittadino (del resto lo stato sociale occidentale è costruito sul lavoro)? Una persona con disabilità che lavora, in teoria, non è forse più inclusa, non esce di casa e costruisce relazioni, non riesce a provvedere a se stessa? A chi è interessato a questioni di bilancio si potrà dirgli che un disabile siffatto costa meno alle casse pubbliche e innalza il PIL! Il drammatico svilimento del lavoro per tutta la popolazione raggiunge indici e dimensioni da capogiro per la disabilità. Secondo alcune stime si attesta al 20% circa la quota di persone con disabilità impiegate (tra gli aventi la possibilità di esserlo).
La legge del “collocamento obbligatorio” da dispositivo pensato per favorire l’inclusione delle persone con disabilità è stata tradizionalmente disattesa in termini generali e, da qualche anno, è ormai sancita per legge la possibilità di eluder-la per ragioni variamente legate alla famosa crisi economica (comoda e oggettiva ragione che giustifica l’arretramento sociale che ci si profila come unico orizzonte possibile).
Questo è semplicemente un esempio evocato per sommi capi, ma sono molti altri i dispositivi destinati alla disabilità in via di svilimento: la mancata inclusione scolastica degli alunni con disabilità è un altro. Ci si sta riprospettando lo scenario per cui, l’unica forma possibile di sostegno alla disabilità è quella medica (mica si potrà tornare all’eutanasia di stato!). La questione si sposta così, completamente e nuovamente, sulla condizione sanitaria e sulla gravità della disabilità sostenendo percorsi, per disabili gravi, di tipo assistenziale e segregativo. Sempre con buona pace dei diritti sia di queste persone con “grave” disabilità, sia di quelle semplicemente con disabilità. Queste dinamiche politico-sociali (e sono politiche perché ci sono dietro delle scelte) raggiungeranno, così, finalmente, il nostro ristoratore. Finalmente si potrà dire, definitivamente, che “un handicappato è un handicappato”, chi perché “ha bisogno di tutto e che gli si faccia tutto”, chi perché “avendo l’handicap” non può entrare nel normale circuito dello stare in società.
Matteo Schianchi