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Persone con disabilità

A cura di Ledha

Archivio opinioni

26 Aprile 2017

L'importante è la salute, non la sanità

di Giovanni Merlo

Un primo articolo di approfondimento sul tema della sanitarizzazione dei servizi per la disabilità, un fenomeno che sta attraversando sempre più il welfare lombardo.

A livello generale il termine “sanitarizzazione” ha un significato poco chiaro alla maggior parte delle persone, comprese le stesse persone con disabilità, i loro familiari, gli operatori e amministratori del settore. Ha certamente a che fare con un incremento di attenzioni agli aspetti di tutela della salute e della sicurezza delle persone ma contiene in sé una percezione negativa. Quando si parla di sanitarizzazione si sottintende che diviene di interesse sanitario ciò che prima riguardava altro. Esprime un’esigenza di controllo e cura sanitaria di alcuni problemi sociali: indica il prevalere di forme di cura e assistenza a scapito di processi di emancipazione della persona. Un termine che, in buona sostanza, evoca una quota di “sterilità” a discapito del rapporto empatico che caratterizza, tipicamente i servizi e le relazioni educative.

Ma se, e in che modo, il processo di sanitarizzazione ha riguardato e sta riguardando la vita e l’organizzazione dei servizi socio-assistenziali e sociosanitari per le persone con disabilità in Lombardia? Ne abbiamo fatto un oggetto di confronto in un focus group con alcuni testimoni privilegiati, esperti del funzionamento delle unità di offerta per le persone con disabilità.

Cosa possiamo intendere con “Sanitarizzazione dei servizi delle persone con disabilità”
La progressiva sanitarizzazione dei nostri servizi ha a che fare con la “cedevolezza” avvenuta nel tempo, nella sovrapposizione tra ciò che si intende per salute e gli strumenti per promuovere la salute.

Per “Salute” vogliamo e dobbiamo intendere il benessere complessivo della persona: il processo di sanitarizzazione dei servizi per le persone con disabilità può essere invece rappresentato con una sorta di amplificazione e enfatizzazione degli aspetti riabilitativi, comunque necessari alla promozione del benessere, a scapito degli ambiti educativi e sociali.  E’ come se nel “Risiko” della promozione del benessere, la sanità avesse invaso altri territori senza incontrare una grossa resistenza.

Come capita nel noto gioco da tavola, la ragione primaria di questa facile vittoria si trova nella disparità delle risorse in campo. Da una parte si fronteggiavano risorse notevoli e certe (quota sanitaria), dall’altra risorse minori e sempre in discussione (quota sociale).  Il sistema dei servizi ha “ceduto”, forse senza totale consapevolezza, rendendosi disponibile ad assorbire quote crescenti di risorse sanitarie per permettere il mantenimento e sviluppo di servizi nati con una forte impronta sociale e educativa, con l’illusione di migliorare e potenziare i servizi senza pagare il dazio.

La crescita del numero delle persone prese in carico, la crescita delle risorsi pubbliche impiegate, ha reso necessario l’attivazione di un sistema di controllo della spesa, vero cavallo di Troia verso l’introduzione del codice della Sanità nella città di Troia dei servizi socioeducativi per le persone con disabilità.

Ma, più in concreto, cosa significa che un servizio per persone con disabilità è “sanitarizzato?
Non significa innanzitutto che vi lavorino personale con qualifiche sanitarie: laddove ve ne sia bisogno questo non rappresenta un limite ma una risorsa, un complemento della personalizzazione della presa in carico dell’individuo. Si tratta piuttosto di un processo, promosso da norme relative all’accreditamento, che impone l’assunzione di punti di vista e di strumenti mutuati direttamente dall’ambito sanitario – ospedaliero. Significa snaturare l’approccio relazionale di abilitazione con la persona con disabilità.

Significa (e siamo nella cronaca…) che si ritenga normale, anzi obbligatorio che sia solo un infermiere che possa somministrare i farmaci alle persone, fatto che non avviene negli ambiti ordinari della vita ma solo in ospedale o appunto in situazioni fortemente sanitarizzate. E nulla conta la semplice evidenza che le persone con disabilità non siano da considerarsi automaticamente malate: anche nel caso debbano assumere quotidianamente alcuni farmaci proprio per continuare a stare bene e a non ammalarsi (come tante altre persone). E nulla conta che il mondo della scuola abbia già affrontato e risolto il problema, consentendo a migliaia di bambini che assumono farmaci di andare a scuola con i loro compagni, senza aver bisogno di un infermiere costantemente a loro fianco. E nulla conta che il rispetto di questa norma impedisca praticamente ogni possibilità di inclusione delle persone che per vari motivi devono assumere regolarmente dei farmaci. Si assiste così al paradosso che una norma che dovrebbe offrire una maggiore garanzia di tutela della salute impedisca di partecipare a proposte come quelle dei week end di autonomia / sollievo sicuramente importanti per migliorare la qualità della vita della persona e della sua famiglia.

La salute (o il Benessere biologico, in chiave ICF) da condizione che sostiene l’inclusione sociale (Partecipazione alle attività e Benessere psicosociale) diviene vincolo e limite. Si passa da “Se ho la febbre non posso uscire” a “Non posso uscire perché potrei prendere la febbre” o ancora “Non posso uscire perché devo prendere il farmaco, proprio in quell’ora e in quella modalità e quando è di turno quell’operatore, grazie al quale non dovrei ammalarmi”.

La sanitarizzazione ha comportato anche, ad esempio, una radicale trasformazione della vita quotidiana delle Comunità: un servizio che in realtà non prevede il coinvolgimento di figure sanitarie e in cui lo staff deve “naturalmente” occuparsi della salute delle persone che vi vivono. Ma al personale educativo non è riconosciuta alcuna autonomia, neanche per assumere una pastiglia di paracetamolo quando una persona ha un po’ di febbre: si deve sempre passare dal medico curante che, però a sua volta, difficilmente si assume la responsabilità della diagnosi senza ricorrere ad approfondimenti. Molto è il tempo che viene assorbito da accompagnamenti “sanitari” per esami e visite specialistiche. E’ certamente il medico di famiglia che chiede sempre più accertamenti, ma la sanitarizzazione riguarda anche la pressione di alcuni familiari, per una attenzione esagerata alle cure di tipo sanitario, a scapito di altre dimensioni di vita. Progressivamente “Avere cura” si è trasformato in “Avere in cura“, e la necessità crescente di controllare la gestione del processo piuttosto che gli esiti, impedisce di lavorare per una vera abilitazione delle persone.

Un altro classico esempio, nasce dalla “stretta” avvenuta sul riconoscimento economico del cosiddetto “vuoto per pieno”: l’introduzione di questa norma ha castrato la possibilità di perseguire percorsi di de-istituzionalizzazione dalle comunità e dalle residenze.  Le assenze dal servizio per il rientro in casa presso familiari o per partecipare ad atre proposte o iniziative per la vita autonoma, non sono state valorizzate come un possibile indicatore di successo di un progetto educativo ma sempre e solo descritte come una minore erogazione di prestazione. Una modalità di concepire la valutazione che è mutuata da un sapere strettamente gestionale delle strutture attento solo al rapporto costi /benefici, in senso molto stretti e quantificabile in termine di impiego e utilizzo di risorse.

Come si accennava, la massa crescente di domanda di servizi in favore delle persone con disabilità è stata sostenuta in questi anni con l’impiego di notevoli risorse di provenienza sanitaria. Ma in questi anni è anche aumentata la necessità di controllare la spesa pubblica. Regione Lombardia ha così adottato, contemporaneamente, logiche e strumenti mutuate dal management delle aziende, procedure e checklist di carattere ospedaliero.

E’ importante ricordare che nessuno ha “costretto” i vecchi Cse e le vecchia Comunità Alloggio a trasformarsi rispettivamente in Cdd e in Css: le ragioni di questa mutazione genetica di massa sono prevalentemente di carattere economico, spesso a tutela della stessa sopravvivenza dei servizi, costantemente minacciati dalla riduzione delle risorse disponibili.  Chi non ha fatto questa scelta, rimando nell’ambito socio-assistenziale ha avuto accesso a meno risorse, avendo in cambio, almeno per un certo periodo, maggiore libertà di azione.

Un motto da non dimenticare
Oggi di fronte ad una ormai debordante sanitarizzazione dei servizi, sarebbe necessario ricordare ai decisori che “l’importante è la Salute e non la sanità”.

Quando parliamo di “salute” parliamo di benessere globale della persona; quando parliamo di sanità parliamo di cura della malattia: ma le persone con disabilità non sono – per definizione scientifica e normativa – da considerarsi dei malati cronici. Nella dizione di benessere bio psico sociale la componente “bio” rappresenta solo un terzo dell’insieme: se guardiamo poi ai domini che definiscono la Qualità della vita, solo uno su otto riguarda il benessere fisico.

Oggi però proprio solo questa la dimensione prevalente su cui si valuta la bontà di un servizio e anche su cui si basa la cosiddetta “valutazione multidimensionale” che in realtà prevede la rilevazione di indicatori solo di tipo clinico/funzionale rispetto a quelli esistenziali.

Giovanni Merlo
articolo già pubblicato sul sito LombardiaSociale.it

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