Disabilità: pratica e grammatica della presa in carico
Una riflessione sulle difficoltà delle ASST a garantire il diritto alla presa in carico delle persone con disabilità, a partire dalla LR 15/2016 e dalle evidenze dell’indagine realizzata sul tema da LEDHA e Uniti per l’Autismo
Da tre anni, in Regione Lombardia, la disabilità è entrata di diritto nell’area della Salute Mentale. Si tratta di una piccola, rivoluzione di cui pochi si sono accorti e che ha prodotto, per il momento, pochi esiti. Tutto nasce con la Legge Regionale 15/2016, provvedimento che si inserisce nel più ampio contesto di riforma del sistema sociosanitario lombardo avviato con la Legge Regionale 23/2015. La legge 15 prevede che nella nuova area della salute mentale afferiscano “gli ambiti delle dipendenze, della neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, della psichiatria, della psicologia e della disabilità psichica. La neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza può afferire funzionalmente all’area materno-infantile”.
Si tratta di una di quelle situazioni in cui pratica e grammatica sembrano andare a braccetto. Con questa scelta, infatti, si potrebbero avviare soluzioni riguardo alcuni problemi concreti molto significativi (parte pratica):
- tante persone faticano a essere considerate come propri “utenti” tanto dai servizi dell’area psichiatrica tanto da quelli dell’area della cosiddetta disabilità,
- tante persone, anche tra quelle che ricevono servizi e benefici pubblici, faticano a ricevere sostegni adeguati ai loro bisogni e quindi rispettosi dei loro diritti.
Nello stesso tempo, con questa legge, Regione Lombardia prende atto e fa proprie alcune scelte di campo di carattere politico, normativo e culturale (parte grammatica) ovvero:
- il superamento delle attuali rigide separazioni fra psichiatria e disabilità che hanno un’origine storico-culturale che oggi non hanno più senso di esistere; piena assunzione della definizione di disabilità come “risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere attitudinali e ambientali che impedisce la loro piena partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”, contenuta nel Preambolo della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. Una definizione che supera, anzi non prende proprio in considerazione, le differenti origini e caratteristiche delle menomazioni, soffermandosi invece sulla condizione di vita delle persone.
- Il riconoscimento che la “presa in carico” di tutte le persone con disabilità che la richiedano – oggi quasi del tutto assente – debba essere attuata mediante un’effettiva integrazione tra gli interventi di carattere sociale, sociosanitario e sanitario.
In concreto … passi in stallo
In questo contesto, la differente descrizione e classificazione tra tipologie di disabilità ha senso se serve per capire meglio le diverse situazioni e quindi per progettare interventi adeguati. Non è invece più accettabile la prassi di definire le condizioni di salute e le menomazioni di una persona allo scopo o con l’effetto di escluderlo dalla presa in carico da parte del sistema dei servizi.
La Legge regionale 15/16 utilizza come parole chiave, espressioni quali benessere, contrasto all’esclusione, cittadinanza, piena integrazione: parlando di budget di salute e di percorsi personalizzati dedica attenzione alla descrizione più di percorsi e obiettivi che a elenchi di prestazioni. Con esplicito riferimento alle persone con disabilità la legge prescrive alle Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST) di perseguire l’obiettivo di garantire “la presa in carico globale e continuativa, attraverso una specifica programmazione, di concerto con gli enti locali, delle persone con disabilità e con disturbi dello spettro autistico, nell’intero ciclo di vita, in base a valutazione multidimensionale e attraverso la piena integrazione dei servizi e dei programmi di natura sanitaria e riabilitativa, con quelli di natura sociosanitaria, sociale ed educativa, con il mondo del lavoro e con la famiglia”.
Una prescrizione che accompagna e rafforza il diritto alla presa in carico delle persone con disabilità già affermato, con esplicito riferimento alla responsabilità dei Comuni, in collaborazione con il comparto sociosanitario (oggi le ASST), dall’art. 14 della Legge 328/2000 e dalla Legge Regionale 3/2008.
Ma di cosa parliamo quando reclamiamo il “diritto alla presa in carico?”
Leggendo le norme, ma anche facendo riferimento alle richieste più volte espresse dalle associazioni delle persone con disabilità, è facile scorgere come la “presa in carico” non si possa ridurre all’inserimento in un servizio o in una unità di offerta, all’apertura di un fascicolo e neanche all’accesso a prestazioni e/o a erogazioni di tipo monetario.
Ovviamente essere “presi in carico” non esclude (anzi) di essere beneficiari di interventi e sostegni di varia natura: ma oggi, il primo obiettivo e l’esito fondamentale della “Presa in carico” non può che essere descritto come garanzia che la persona con disabilità abbia “accesso ad una serie di servizi a domicilio e residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale, necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirsi e impedire che siano isolate o vittima di segregazione” (Art. 19, punto 2 della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità). Senza tale garanzia ogni previsione di intervento e di sostegno non diviene un diritto, ma una semplice opportunità e possibilità.
Il processo della presa in carico è stato più volte descritto, anche dalle recenti norme regionali ad esempio di implementazione della Legge 112 o del Fondo per la Non Autosufficienza. Non vi è delibera recente che non preveda la Valutazione Multidimensionale, la Progettazione globale e la conseguente definizione di programmi e mete specifiche.
Ma in questo caso alla grammatica non è seguita molta pratica, almeno da un punto di vista sostanziale. Mancano alcune conoscenze e consapevolezze di base, quali
- Il fatto che il soggetto di tutte queste azioni non possa che essere la persona con disabilità, oggi ancora relegata in un ruolo passivo sia nella valutazione che nella progettazione, entrambe condotte da parte di altri;
- Il fatto che la persona con disabilità, i familiari, gli operatori dei servizi sociali, socio assistenziali, sociosanitari e sanitari possono e devono essere tutti attori protagonisti di un percorso di emancipazione della persona da una condizione di esclusione a una di inclusione. Perché è questo l’orizzonte da tracciare, dopo la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Le evidenze dalla ricerca
In questa cornice, LEDHA e Uniti per l’Autismo hanno realizzato un’indagine presso le ASST lombarde, sullo stato di attuazione di quanto previsto dalla Legge Regionale 15/2016 in tema di presa in carico delle persone con disabilità. L’indagine ha interpellato tutte e 27 le ASST territoriali e le due Irccs di Milano (Besta e Policlinico). Dal report si evince in sintesi quanto segue.
Fino ai 18 anni, i punti di riferimento sono chiari. La presa in carico dei bambini e ragazzi con disabilità vede in campo prima di tutto le famiglie, che devono far fronte a richieste e carichi di lavoro eccessivi; le Uonpia, servizi affaticati, che soffrono di uno strutturale squilibrio tra bisogni e richieste crescenti e risorse stagnanti; le amministrazioni comunali che offrono quanto previsto dalla legge e si attivano di fronte a problematiche sociali rilevanti; le istituzioni scolastiche che anche in presenza di risorse significative appaiono sempre meno preparate a fronteggiare situazioni complesse. In questo caso, il problema che si pone, non è quindi il “chi”, quanto piuttosto (e a volte in modo drammatico), il come, il quando, con quali risorse e con quale relazione e collaborazione.
Il panorama cambia radicalmente al compimento della maggiore età. Persone e famiglie che faticano a trovare punti di riferimento certi, pur in presenza di una corposa (anche se inadeguata) offerta di servizi e benefici, tanto nell’area della disabilità “classica” e che in quella della psichiatria.
L’indagine ha messo in evidenza come le ASST siano sostanzialmente inadempienti nel garantire la presa in carico delle persone adulte con disabilità. Solo 4 su 21 delle ASST che hanno risposto all’indagine, hanno messo in atto servizi che possono prefigurare un prolungamento della presa in carico delle Uonpia anche dopo i 18 anni.
In questo contesto la presa in carico delle persone con disabilità, si scarica sostanzialmente sulla famiglia. Scompare la scuola, l’accesso al lavoro è sempre più difficile e le amministrazioni comunali, in presenza di budget di risorse limitati, selezionano prevalentemente le persone di cui occuparsi in base a criteri di “gravità” e “povertà”. Molte persone con disabilità risultano inserite presso servizi diurni, sia sociosanitari che socio assistenziali, il cui accesso non appare sempre facile; sono aumentati, invece, i numeri di persone che ricevono sostegni di carattere economico, grazie all’estensione della platea dei beneficiari del FNA.
L’indagine ha messo in risalto anche la presenza di numerosi progetti, sperimentazioni e iniziative locali, spesso di grande qualità, ma che proprio per la loro natura e il loro carattere episodico non possono configurarsi come servizi di presa in carico.
Presa in carico, un diritto non ancora garantito
Gli esiti di questa indagine confermano, purtroppo le ipotesi di partenza. Ad oggi in Lombardia, non è ancora garantito il diritto alla presa in carico di tutte le persone con disabilità, in particolare se adulte. Infatti sul fronte dei bambini e dei ragazzi, il servizio di riferimento è chiaramente identificato nelle Uonpia, presenti in tutte le ASST lombarde. In questo caso il tema riguarda le risorse disponibili e le modalità di funzionamento del servizio. Per gli adulti, ci troviamo di fronte a una carenza di carattere organizzativo – che riguarda la mancata previsione di un servizio analogo alle Uonpia, dedicato alle persone adulte – ben conosciuta da tutti gli addetti ai lavori: un problema presente praticamente da sempre nel nostro impianto di welfare sociale a cui la Legge 15/2016 intendeva e intende porre rimedio. Una previsione la cui traduzione in realtà sembra essere stata lasciata, almeno al momento, alla libera iniziativa delle singole ASST generando l’effetto “frammentazione” che emerge come risultato fondamentale dell’indagine e uno “scaricamento” di responsabilità e azioni sulle famiglie.
In questo contesto appare necessario un cambio di passo nel modo di affrontare il problema, ovvero:
- riconoscere che sarebbe assolutamente necessario destinare specifiche risorse ai servizi e agli operatori responsabili della presa in carico e quindi del supporto alla persona con disabilità alla definizione del proprio progetto individuale;
- ripudiare il principio che premia la “gravità”, come criterio di accesso ai servizi, a vantaggio di quello di promozione dei diritti umani delle persone con disabilità e dell’espressione dei loro desideri e delle loro preferenze;
- ribadire che per lavorare per l’inclusione, sia assolutamente necessario investire risorse, energie, tempo e competenze per educare i nostri contesti familiari, scolastici, sociali e lavorativi a modificare le proprie credenze e regole di funzionamento per evitare o almeno ridurre la discriminazione e il rischio di esclusione di alcune persone in ragione delle loro menomazioni;
- ricordarsi che la segregazione inizia, prima che con la costruzione di muri, quando “alla persona con disabilità non sia data nei fatti, in modo concreto e fattivo la possibilità di una partecipazione attiva alla vita del servizio, secondo le modalità che gli sono consentite dalle sue menomazioni e condizioni di salute, i propri desideri e le proprie preferenze”;
- riconoscere che i tempi attuali sono quelli propizi per generare questi cambiamenti.
Articolo già pubblicato su LombardiaSociale.it