La dignitą delle piccole scelte
Riflessioni sulla libertą di scelta quotidiana nella disabilitą mentale
L’anno scorso ho partecipato a un gruppo “AMA” (Auto mutuo aiuto) per i genitori partecipanti al progetto del “Dopo di noi” (L.112 del 2006). Ho ascoltato il racconto di familiari coinvolti in un percorso magnifico verso l’autonomia dei loro figli, fratelli e sorelle, consapevole e fiduciosa che questo passaggio vedrà protagonista anche mio fratello in futuro. Quello che mi ha sorpreso più di tutto è stata una frase, apparentemente ovvia, pronunciata dallo psicologo del gruppo: “I vostri figli si sentono dire tutto il giorno cosa devono fare”.
- Quante volte ho detto a mio fratello come doveva occupare il suo tempo, come doveva gestire la sua vita, ma soprattutto cosa NON doveva assolutamente fare? –
Mi sono appuntata quella frase sul quaderno e appena arrivata a casa l’ho riferita a mio padre. È come se entrambi, fino a quel momento, non avessimo realmente colto l’importanza di quella dimensione “della scelta sulla propria vita”, anche e soprattutto nelle più piccole cose. Da quel momento il mio sguardo ha incominciato a cambiare. Ho iniziato a pormi domande più in profondità sulla libertà di scegliere, su quale avrebbe dovuto essere il mio comportamento con mio fratello piuttosto che imporre a lui il modo in cui comportarsi, come solitamente siamo abituati nella nostra società.
Perché quando l’altro non ha reali strumenti per opporsi, non ha consapevolezza di ciò che gli spetta in quanto essere umano, e si affida completamente a noi oppure urla per esprimere il suo dissenso allora il matto è lui. Quando invece siamo noi ad essere opprimenti, soffocanti, padroni direttivi della vita di chi ci sta intorno. Noi tutti riteniamo libertà di scelta non solo un valore ma anche un diritto, il poter scegliere, il sentirsi liberi di agire, di muoversi, nel parlare e nel pensare e difendiamo questo aspetto a spada tratta nella nostra vita. La libertà di scelta è un diritto e non bisogna scordarsi che, in quanto tale, è perciò universale, rivolto a tutte le persone. Senza sé e senza ma.
Ma quando prendiamo in considerazione il caso di persone con una disabilità cognitiva le cose cambiano. Non solo abbiamo la presunzione (noi familiari, educatori,….) di sapere che cosa sia meglio per loro, in ogni piccola azione, ma ci sentiamo anche legittimati nel farlo. Riteniamo che non essendo in grado di badare a loro stessi come lo siamo noi (pensiero in ogni caso discutibile) sia necessario mettersi al LORO POSTO. Attuiamo una sostituzione di persona, e la disabilità che abbiamo di fronte si appropria dell’identità dell’individuo.
Le limitazioni si pongono a diversi livelli: partendo dai servizi dedicati fino ad arrivare ai gesti più semplici della vita quotidiana. Ed è proprio su questi ultimi che ho recentemente iniziato a ragionare e intervenire in prima persona perché sono convinta che il diritto debba essere applicato alla vita di tutti i giorni restituendo dignità anche nelle piccole cose.
Il comportamento che di solito viene attuato nei confronti di una persona con una disabilità cognitiva è generalmente di contenimento: genitori, educatori, familiari e altri professionisti agiscono in modo da far mantenere alla persona con disabilità un profilo il più basso possibile. Un livello “accettabile” di disabilità. I familiari, parlo anche per esperienza personale, tendenzialmente vogliono “normalizzare” il figlio, il fratello o la sorella con disabilità per evitare che faccia brutte figure in pubblico, che sia scortese. Per fare in modo che non alzi troppo la voce, che non assuma comportamenti giudicati inadeguati.
Noi, familiari di persone con disabilità, accompagniamo tutto questo con una serie di divieti e obblighi che devono essere eseguiti senza essere almeno preceduti da un: “Ti andrebbe?”
Vorrei, perciò, porre questa domanda: come ci sentiamo noi quando qualcuno di impone cosa fare? Ci corregge o ci limita? Quando ci viene detto cosa, come e quando mangiare? Cosa bere? Quando fumare o parlare? Tutto questo solleverebbe in noi delle sensazioni decisamente contrastanti e in generale poco piacevoli, ci sentiremmo limitati nella nostra espressione, poco adeguati nelle nostre azioni ma soprattutto nel nostro essere. E per quale motivo questi pensieri non dovrebbero valere, allo stesso modo, per le persone con una disabilità cognitiva?
Le persone con disabilità non sono libere di essere persone scontrose, antipatiche o maleducate. Non possono dire parolacce, non possono alzare la voce, non possono rispondere male, non possono farci fare figuracce, non possono fumare, non possono avere determinati interessi per cose ritenute DA NOI strane e insignificanti.
E la domanda che ho iniziato a pormi è: “Quali di queste cose io non posso fare?”.
Talvolta ci comportiamo in questo modo spinti da buoni sentimenti, dall’idea di “fare il meglio per lui”. Ma forse, anziché deciderlo a priori, dovremmo rivolgerci all’interessato, chiederglielo e ascoltare profondamente la risposta, leggere anche tra le righe la volontà presente in ognuno di noi, non importa quanto le parole alle volte ci sembrino scomposte o poco comprensibili; si tratta di allenare l’orecchio e la mente.
La provocazione che voglio proporre riguarda il comportamento di noi “privilegiati” che possiamo reclamare la nostra libertà di scegliere senza essere definiti matti o squilibrati. Vorrei che questo diritto non fosse più un privilegio e che noi stessi diventassimo portavoce di questo cambio di paradigma, di pensiero, noi che veniamo ascoltati. So che il percorso non è facile e oltre a essere piuttosto impegnativo è sicuramente anche molto discusso ma preciso: si possono discutere le modalità, non i diritti. E che si discutano le modalità con le persone interessate.
Che il “NIENTE SU DI NOI, SENZA DI NOI” valga sempre. Augurandomi che una società fragile ragioni prima sui propri di limiti.
A te Simo che tu possa scegliere se leggerlo o no
Marzia Giudici
Studentessa dell'Università degli Studi Milano Bicocca